Si tratta delle cosiddette "nonprofit utilities" (NPU). L’alternativa nonprofit non è affatto velleitaria. Si tratta bensì di una soluzione operativa praticata in molti paesi industrializzati. La gran parte dei servizi pubblici locali negli Stati Uniti, ad esempio, viene gestita con questa tipologia organizzativa. E anche in Europa non sono rari gli esempi di servizi pubblici locali, come quelli idrici, gestiti con modelli organizzativi nonprofit.
Cosa intendiamo per nonprofit utility
Si tratta di un modello organizzativo, generalmente di diritto privato, che (i) coinvolge nella proprietà o, quantomeno, nella titolarità di un SPL tutti gli stakeholders e, quindi, in primis i cittadini; (ii) non prevede una distribuzione integrale degli utili prodotti ai diversi soci, bensì il loro reimpiego quasi esclusivo per il potenziamento/ammodernamento delle infrastrutture e/o per il miglioramento della qualità del servizio.
Sotto il primo profilo, si tratta di formule gestorie nelle quali i cittadini non sono più meri utenti perché, anche se con gradazioni diverse, vengono coinvolti nella gestione dei servizi. Si va dalla comproprietà delle infrastrutture o del soggetto che eroga il servizio, fino alla collaborazione nella definizione delle strategie e nella valutazione dei servizi, passando per forme di rappresentanza, diretta o indiretta, negli organi di governo. Laddove i cittadini non sono proprietari delle NPU, infatti, ne rimangono comunque titolari, nel senso che sono in grado di controllare e indirizzare le scelte del management attraverso rappresentanti della comunità degli utenti o esperti indipendenti che siedono negli organi di governo della NPU.
Sotto il secondo profilo, in una NPU i ricavi tariffari vengono anzitutto utilizzati per coprire i costi operativi e i costi del capitale di debito (cioè il pagamento degli interessi sui finanziamenti agli investimenti per lo sviluppo della rete o del servizio). L’utile netto d’impresa, invece, non viene destinato alla distribuzione di dividendi se non sotto forma di sconto sulle tariffe praticate ai cittadini. In via di principio, infatti, l’utile viene reinvestito per garantire il potenziamento dell’infrastruttura, il suo ammodernamento e quindi la sua efficienza. Se, invece, si vanno ad analizzare i bilanci degli ultimi 5 anni delle grandi società che gestiscono reti per servizi d’interesse generale, come autostrade, energia e gas, ci si rende conto che c’è un quasi totale allineamento tra utile netto d’impresa e dividendo. Questo vuol dire che quasi tutto l’utile è destinato alla remunerazione degli azionisti e quasi nulla al potenziamento della rete. Con una NPU questo non accadrebbe.
Nel caso in cui l’utile ecceda quanto richiesto per il finanziamento di questi interventi, esso può essere accantonato come riserva di capitale per assicurarsi contro il rischio di costi inattesi, per tenere basso il costo del capitale di debito, per future esigenze di sviluppo; redistribuito tra gli utenti sotto forma di sconto tariffario (generalmente riservato alle fasce più deboli della società); o, infine, utilizzato a sussidio di altri servizi di interesse generale caratterizzati però da minore redditività.
In definitiva, clausola di reinvestimento degli utili per il potenziamento e ammodernamento delle infrastrutture o per il miglioramento del servizio a favore degli utenti, insieme con meccanismi di governance che assicurino la rappresentanza dei cittadini-utenti all’interno dell’impresa di SPL sono i due assi portanti di una NPU.
La cooperazione di utenza
Quello delle NPU è uno schema teorico che comprende diversi modelli organizzativi. Gli esempi e le modalità di organizzazione sono classificabili in due macro-categorie: la cooperative/consorzi di utenti e le fondazioni per la gestione di SPL.
Il primo modello viene sperimentato a Melpignano, in provincia di Lecce, dove esiste una cooperativa di comunità per la produzione di energia da fonti rinnovabili in cui i soci sono sia il Comune che i cittadini. Questi ultimi contribuiscono al progetto mettendo a disposizione le proprie case per l’istallazione dei pannelli solari ed hanno in cambio a costo zero l’energia prodotta. Gli utili prodotti dalla vendita del surplus di energia vengono reinvestiti in infrastrutture e servizi per la comunità locale.
Anche nella gestione del servizio idrico, in Italia, ci sono alcuni esempi. Si tratta, soprattutto, di realtà diffuse nelle zone montane dove gli acquedotti sono stati costruiti e continuano ad essere gestiti da consorzi di cittadini. Uno di questi casi è il consorzio di Mezzana Montaldo nel Biellese, dove esiste il Consorzio Acqua Potabile che gestisce l’acquedotto in maniera nonprofit.
Le fondazioni in veste di utilities municipali
Ma, se vogliamo guardare a NPU di dimensioni maggiori il modello organizzativo muta e si avvicina molto a quello delle nostre fondazioni. L’esempio più noto è quello di Glas Cymru nel Galles, che amministra una rete idrica che serve oltre tre milioni di persone. Si tratta di una "company limited by guarantee", cioè di una impresa in forma societaria che però non ha una compagine azionaria e che destina ogni surplus finanziario a beneficio dei consumatori. Al posto di soci in cerca di remunerazione del proprio pacchetto azionario, ci sono i "membri" che sono selezionati in base a competenze, esperienze e interessi in grado di metterli in condizione di svolgere in maniera efficace il proprio ruolo all’interno della NPU. E il compito principale dei membri di una guarantee company è quello di controllare che l’operato del management si svolga nel rispetto dei più elevati standard di corporate governance (e, precisamente, l’UK Corporate Governance Code cui si devono uniformare tutte le società quotate in borsa) al fine di garantire alla NPU una performance commerciale, in termini di qualità del servizio e di efficienza nei costi, paragonabile a, se non migliore di, quelle delle altre utilities idriche con compagine azionaria. Un panel composto da personalità indipendenti dalla NPU gestisce la procedura di selezione dei membri in maniera tale da garantire che la compagine rifletta nel modo più esauriente possibile la gamma di consumatori e portatori di interessi serviti dalla NPU. I membri hanno il potere di nominare e revocare i 3 direttori esecutivi e 6 direttori indipendenti non esecutivi previsti dallo statuto.
Negli Stati Uniti quello delle NPU è un sistema ancora più consolidato. Moltissime città e Stati amministrano i servizi locali, per esempio gli acquedotti o i trasporti pubblici, non attraverso corporations (cioè le nostre S.p.A.), bensì attraverso public authorities. Altro non sono che trust, molto simili quindi alle nostre fondazioni che non prevedono distribuzione di dividendi. A New York, un trust di questo tipo è la MTA, la società che gestisce i trasporti pubblici.
I trust sono strumenti di diritto privato e la scelta cade su di loro perché il modello organizzativo pubblicistico non favorisce il finanziamento attraverso la raccolta di capitale di debito. I mercati hanno, infatti, difficoltà a fidarsi di strumenti opachi come le aziende di diritto pubblico. Le NPU, dunque, si organizzano secondo il modello del diritto privato, ma con l’obiettivo esclusivo della gestione qualitativa ed efficiente del servizio e non della remunerazione di capitale di rischio nel breve periodo attraverso distribuzione di dividendi agli azionisti, pubblici o privati che siano.
Investire nelle NPU
L’abrogazione della disposizione che consentiva la remunerazione del capitale investito nella gestione del servizio idrico potrà scoraggiare gli investitori privati tradizionali, quelli che perseguono in una logica di breve periodo un ritorno economico "adeguato" dal capitale di rischio investito. In assenza di una remunerazione adeguata, si dice, il rischio è che non si riescano ad attrarre i capitali privati necessari al finanziamento delle infrastrutture, mentre il problema della gestione dei servizi locali in Italia è proprio quello della mancanza di fondi.
In primo luogo, in molti casi i privati non portano affatto risorse economiche proprie, ma entrano in queste società di gestione "a debito". I gestori privati, in molti casi, ricorrono a complesse operazioni di ingegneria finanziaria per reperire le risorse occorrenti all’ammodernamento delle infrastrutture promesso con l’effetto di caricare il debito sulle spalle della utility appena conquistata e, nei peggiori casi, sono costretti a spremere la utility con la distribuzione di dividendi elevatissimi per ripagare il debito contratto con le banche per acquisirla.
E, poi, nulla esclude che una nonprofit utilities non sia in grado di presentarsi sul mercato dei capitali per chiedere con un progetto credibile il finanziamento del proprio piano di sviluppo infrastrutturale. Anzi, la casistica internazionale dimostra proprio che le nonprofit utilities fanno un ampio ricorso al capitale di debito. Una nonprofit, inoltre, non avendo obblighi di remunerazione immediati, può spuntare condizioni migliori proprio perché deve per statuto reinvesitre tutti gli utili nella gestione efficace ed efficiente del servizio.
Esistono, peraltro, investitori interessati a intervenire in settori od operazioni funzionali alla creazione di “esternalità positive”, come le infrastrutture di trasporto, la produzione di energie da fonti rinnovabili, le infrastrutture idriche e per l’igiene urbana. Ad esempio i fondi sovrani, i fondi pensione, le assicurazioni o le casse depositi europee, cioè i cosiddetti "investitori di lungo termine" (ILT). Essi non investono in questi settori solo per responsabilità sociale che in molti casi è embedded nella loro missione. Lo fanno perché si tratta di settori con enormi potenzialità di sviluppo e perché il rischio è meno elevato. Questi soggetti cercano comunque una remunerazione dei capitali investiti, ma come corrispettivo del minor rischio accettano la prospettiva del ritorno di lungo periodo. Insomma, gli investitori di lungo termine non perseguono la remunerazione immediata e integrale della partecipazione azionaria. La logica del profitto, in questo caso, è coerente con la missione d’interesse generale.
Perciò si dovrebbe fare in modo che almeno nel caso di coivolgimento di ILT sia possibile la remunerazione minima dei capitali investiti che questi soggetti richiedono per poter mettere a disposizione i propri capitali di progetti di lungo termine oppure si dovrebbe favorire l’incontro tra NPU e ILT attraverso la predisposizione di strumenti finanziari pensati proprio per il finanziamento delle infrastrutture al servizio delle comunità locali. In questa direzione vanno gli sforzi del UE e degli ILT per la creazione di project bonds.
Non esiste una soluzione "one-size-fits-all"
La legislazione sulla gestione dei servizi pubblici appena abrogata dal referendum (l’art. 23-bis del d.l. 112/28) non impediva di per sé il ricorso alle nonprofit utilities. Così come la normativa comunitaria, che come si è detto è meno restrittiva rispetto a quella oggetto del referendum e che ora riespande tutta la propria portata applicativa (v. C. cost. n. 24 del 211), non frappone alcun ostacolo a questa tipologia di gestione.
Teoricamente, infatti, l’introduzione delle NPU poteva essere perseguibile in base al quadro legislativo preesistente e potrebbe esserlo in base al quadro regolatorio comunitario vigente. Si poteva e si può stabilire che i privati che partecipano alla gara per l’affidamento di un servizio o per la scelta del socio privato di una società mista siano – anche o solo – soggetti nonprofit oppure attribuire un maggior punteggio nel bando per una gestione secondo criteri nonprofit. In ultima istanza, si poteva e si può anche provare a sostenere che la nonprofit sia una forma di gestione assimilabile all’in house providing, perché alla radice ne condivide la natura di alternativa alle ipotesi di "efficace ed utile ricorso al mercato".
L’importante è ricordare che non esiste una soluzione valida in tutte le circostanze. Il tipo di gestione da adottare varia molto a seconda dei contesti e bisogna ragionare sul tipo e sulle dimensioni del servizio. In questo senso l’abrogazione dell’articolo 23-bis è importantissima proprio perché reintroduce la libertà di scelta nell’organizzazione dei servizi locali e quindi la possibilità di valutare quale sia la modalità di gestione dei SPL più funzionale alle esigenze delle diverse comunità locali e dei diversi contesti geografici, sociali, culturali. Lì dove la gestione pubblica o la gestione privata hanno dato buona prova di sé perché cambiare?
Va da sé che alla abrogazione dell’art. 23-bis dovrebbe seguire anche un’iniziativa legislativa nazionale per stabilizzare il quadro normativo e, soprattutto, per istituire un’autorità di controllo delle performance dei diversi gestori, pubblici, privati o nonprofit. L’autonomia deve sempre accompagnarsi alla responsabilità. E quindi la riconquista della libertà di scelta delle comunità locali deve essere contemperata da strumenti regolatori diretti a responsabilizzare i decisori pubblici locali, così come i gestori dei servizi. Qualunque libertà, infatti, se priva di limiti e contrappesi, sconfina nell’arbitrio e in malversazione.
L’alba del giorno dopo?
E allora, per concludere, nel disaster movie di Roland Emmerich da cui ho tratto il titolo di questo contributo, tutto incentrato sul pericolo di glaciazioni e maremoti distruttivi, i protagonisti sopravvissuti alla catastrofe si incontrano davanti alla New York Public Library, forse a significare che al fine di evitare ulteriori catastrofi l’umanità si deve fermare a riflettere sul futuro partendo da un patrimonio di conoscenze condivise. Così anche per i servizi pubblici locali nell’Italia del post-referendum, invece di cedere a spinte verso glaciazioni stataliste o maremoti liberisti, è il caso di incontrarci tutti in qualche biblioteca o qualche università per riflettere sul futuro di un settore importante tanto per lo sviluppo economico, quanto per la vita delle comunità e i diritti fondamentali dell’individuo.
(1) Vd. C. Iaione, Le società in-house. Contributo allo studio dei principi di auto-organizzazione e auto-produzione degli enti locali, Jovene, Napoli, 27.